Dal ciclo "L'UOMO"
IL MALE OSCURO DELLA PITTURA
Studio Abate
Roma, via dei Sabelli 16
a cura di | curated by Duccio Trombadori
23 maggio - 16 giugno 2014
Presentazione | Introduction: Claudio Abate
Testi critici di | Pieces by: Duccio Trombadori, giornalista e storico dell'arte | Journalist and art historian
Alessia Carlino, critico d'arte | art critic
Fotografie | Photographies: Claudio Abate
Traduzioni | Translations: Dario Fabbri (Inglese, English)
Claudia Wiegleb (Tedesco|Deutsch)
Ufficio stampa | Press: Flavio Alivernini
Progetto grafico |Graphic design: Aurelio Candido
Stampa | Printing: Arti Grafiche Agostini
http://www.arte.it/calendario-arte/roma/mostra-valerio-de-filippis-il-male-oscuro-della-pittura-8499
IL MALE OSCURO DELLA PITTURA
di Duccio Trombadori
Roma, maggio 2014
Valerio de Filippis vuole dipingere il male di vivere con intensità gestuale e sprezzo dichiarato delle buone maniere.
Non c'è nulla di artificiale o di artefatto nella sua immagine compiuta. Egli descrive il furore della vita sotto varie forme del simbolo o dell'allegoria. E sembra quasi cercare l'effetto sgradevole dei contrasti di forma, luce ed ombra, quando la materia cromatica gli prende la mano e impone il suo magma.
Come presa da 'male oscuro' la pittura crea e mangia la forma, si afferma come potenza autonoma attraverso lampi di luce sulfurea ed emerge come sostanza incandescente dal vulcano della energia espressiva.
Il Terzo Assalto / The Third Assault (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90x120)
Siamo in presenza di un immaginario scelto in simultanea con l'azione pittorica. Ogni resa visiva ci appare lacera e quasi indistinta, come uno sporadico 'flash' scattato su un paesaggio dai contorti inusitati che sembra alludere all condizione 'infernale' in cui versa l'elemento umano.
Uomini, anni e vita scorrono davanti ai nostri occhi e sembrano sorpresi in atteggiamenti che ne contraggono le membra, le divaricano e le torcono come specchio di una sofferenza interiore. Le figure sono fissate al lampo di magnesio da un osservatore fulmineo, che si accosta come affascinato dall'accoppiamento improvviso di due corpi, dalle anomalie motorie, dagli sguardi catatonici, dai volti lacerati dall'età e dalle figure femminili in fiorente primavera che sembrano stampate sulla patina di una rivista di moda.
Figura / Figure (2007) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (110 x 125)
Siamo nel cuore di una narrazione che suggerisce visioni intertestuali, un flusso continuo di esperienza vissuta trasfigurata per analogia dell’umano al post-umano, dove appaiono spezzoni di architetture metropolitane, luci fosforescenti messe a fuoco dall’obbiettivo: una mano emerge dal fondo bituminoso, in equilibrio di luci nella notte, come fotografata da un’automobile in corsa; il primo piano di un uomo in rosso viene incontro in prospettiva aggettata sullo sfondo di vernici rugginose, di plastiche bruciate: e un nudo ripreso di tre quarti, con l’aria di ‘prigione’ senza tempo, mostra la spalla allo spettatore, col viso semi-illuminato, le luci violente, le colature di vernice e il fermentare di materia monocroma che appiattisce lo sfondo.
Che tipo di mondo descrive Valerio de Filippis e di quale ‘universo orrendo’ (direbbe Pasolini) vuol essere lucido testimone? Tra plastiche argentate, tessiture di gommalacca, carte, colle, resine e vernici diverse, egli ci parla di ‘demoni’, di ‘mutanti’ e di strane figure d’oltretomba, lèmuri a figura d’uomo che all’uomo s’appaiano come ombre profetiche ed esiziali.
Davanti alla legge / Before the law (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 120)
E' tutto un gran teatro di simulacri questo apparire di 'hollow men' di fronte a una natura decomposta che sembra un retromondo ed è parafrasi del mondo dove lo sguardo si posa come 'muto ospite' di fronte ad un bruciante richiamo di realtà sottolineato da allucinazioni della fantasia. Il pittore segnala le sue immagini come 'astratti furori' o simboliche moralità in un paesaggio consumato al calor bianco degli idrocarburi, metafora di armonie biologiche spodestate dalla violenza tecnica, dai fragori e rumori della guerra in cui si risolve, come dice Macbeth, la favola insensata della vita. Così, in modo quasi spettrale, compaiono straniritratti, come segni linguistici arbitrari che indicano possibili vie di comunicazione in uno scenario da 'Blade Runner' di un mondo giunto al 'grado zero' della solitudine.
Figura serie W mod. 1 / Figure series W mod. 1 (2011) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 120)
Armatura / Armor (2010) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (90 x 134,5)
Carica di disperazione vitale, la pittura illumina le più eseplari banalità quando le associa al giuoco calcolato della fantasia: i corpi contratti, le protesi dell'accoppiamento erotico, i flussi naturali della vita e della morte si presentano come la parodia visiva di drammatiche verità esistenziali.
Grazie alle figure degli 'androidi' deformati dalla forma e dal colore (gialli sulfurei, neri bituminosi, rossi scarlatti) e le apparizioni di scenari apocalittici e mitologici (per esempio: una 'Nave di Ulisse' appare sul fondo oscuro
di una notte in tempesta, mentre la osserva in primo piano un vecchio dall'aria di vaticinante Tiresia) Valerio de Filippis tesse una trama apocalittica che esalta in modo coinvolgente il potenziale puro della materia cromatica.
Sul piano espressivo il pittore è sensibile al procedere tumultuoso della emotività ed interpreta in modo originale una certa tradizione nordeuropea (dai grumi colorati di Nolde fino alle varianti postmoderne di Lupertz e Polke) ma la sua vocazione formale è ben piantata su una forte radice plastica di impianto veristico o iper-reale che modella poderosamente l'immagine dei corpi umani e ne fa oggetto di fervida indagine morfologica. E in questa intersezione di formule si precisa compiutamente l'accentostilistico di una pittura che persegue consapevolmente l'amalgama del lato visionario dell'immagine con quello drammatico-esistenziale della figurazione.
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PAINTING'S DARK EVIL
by Duccio Trombadori
Rome, May 2014
With gestural intensity and stated disdain for good manners, Valerio de Filippis portrays gloominess.
There’s nothing artificial or doctored about his accomplished image. He depicts life’s furor through several forms of symbol and allegory, as if he were seeking the unpleasant effect caused by contrasts among form, light and shade, when chromatic matter imposes its will and force its magma upon him.
As haunted by “a dark evil”, painting creates and destroys form, then establishes itself as an autonomous force through flashes of sulphurous light and emerges as an incandescent substance out of the volcano of expressive energy. We witness an imaginary chosen simultaneously with the pictorial gesture. Each visual output looks frayed andalmost indistinct, like a random snapshot of a landscape which sports unusual outlines and seems hinting at the infernal condition of human race. Human beings, years and life pass before our eyes, apparently caught in poses which bend, spread and twist their limbs as mirror of an inner struggle. Silhouettes look like photographs taken with a magnesium light by a deft observer who comes closer, mesmerized by a sudden intercourse between two bodies, by motor abnormalities, by catatonic gazes, by faces spoiled by age, and by feminine figures in their prime who seem printed on the shiny paper of a fashion magazine. We are into the midst of a story which conjures up intertextual visions, an endless flow of lived experiences transformed by analogy from human to post-human, where suddenly appear parts of metropolitan architectures, florescent lights sharply focused on by a camera lens: a hand rises up from the bituminous bottom as photographed by a moving car, all around night lights in a balanced array; the close up of a protruding man approaching us while rusty paints and burned plastic stay in the background; and a nude in three-quarter view, reeking of a timeless “prison”, the back turned to the spectator with a semi-lit face, violent lights paint, paint leakages, and fermenting monochromatic matter which flattens the background.
What kind of world does Valerio de Filippis portray and what dreadful universe (as Pasolini would say) he wants to be an aware witness to? Among silver plastics, shellac weavings, paper, glues, resins, and varied paints, he tells us of demons, of mutants, of strange figures from the netherworld, human-resembling lemurs who look prophetic and calamitous as shadows. These hollow men make for a great theatre of simulacra right in front of a decomposed nature resembling the afterworld and it’s actually a paraphrase of the world, in which our gaze lingers as “silent guest” while a soul-searing call for reality gets amplified by fantasy hallucinations. The painter presents his images as “abstract furors” or symbolic moralities in a landscape scorched with the white heat of hydrocarbons, metaphor of biological harmonies defeated by technical violence, by buzzes and noises of war where, as stated by Macbeth, the fairytale of life draws to an end. Thus, in a quasi-ghostly way, strange portrays materialize like arbitrary linguistic signs pointing to possible means of communication in a scenario à la Blade Runner, when the world has reached the zero-degree of loneliness. Laden with vital desperation, painting sheds a light on the most quintessential trivialities when succeeds in connecting them to the thoughtful game of imagination: torn bodies, artificial limbs employed during intercourse, natural cycles of life and death present themselves as the visual parody of dramatic and existential truths.
Thanks to figures of androids warped by form and color (sulphurous yellow, bituminous blacks and scarlet reds) and epiphanies of apocalyptic and mytological scenarios (i.e. Ulysses’ ship appearing in the dark background of a stormy night, while an elder, resembling the Greek prophet Tiresias, looks on in the foreground) Valerio de Filippis weaves an apocalyptic plot which, in a captivating manner, exalts the pure potential of chromatic matter.
On the expressive level, de Filippis proves to be receptive to the tumultuous advancing of sensitivity while interpreting in a highly original way a certain North European tradition (from Nolde’s colored lumps to Lupertz and Polke’s postmodern variations). Nonetheless his formal vocation draws from a strong plastic background of veristic and hyperrealistic origin, vigorously molding the image of human bodies and making them the objects of a fervent morphologic investigation. And by mixing these very formulas de Filippis unquestionably refines the stylistic accent of his art, which consciously pursues the amalgam between the visionary side of image and the dramatic and existential side of representation.
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Lo specchio (Il boia) / The mirror (The executioner) (2012) tecnica mista su legno - mixed media on wood, cm (73 x 110)
UNA PRESENZA NASCOSTA
di Claudio Abate
Roma, maggio 2014
Non appena scoperta l’arte di Valerio de Filippis sono stato colto dalla curiosità di capire meglio quali idee e quali gesti avesse già prodotto la sua mano: una tela, che riempie di energia il mio laboratorio, mi ha sempre suggerito l’idea di conoscere più a fondo l’artista.
Una volta esplorata la sua pittura, ho sentito che avrei dovuto ospitare una mostra per capire davvero il suo mondo perché non mi sarebbero bastate le immagini, una visione non materica.
Ci sono artisti che parlano di sé, ce ne sono altri che raccontano più quello che accade fuori; de Filippis, a mio parere, percorre entrambe le dimensioni. Al limite di questi due spazi si pongono le mani dei suoi soggetti: un capolavoro di espressività attraverso il quale de Filippis squarcia il velo del disincanto per portare sulla scena la grazia e l’ossessione che comunicano i corpi.
Nel corso della mia carriera mi sono sempre fatto guidare dall’intuito e, devo dire, la maggior parte delle volte gli artisti che ho fotografato hanno rivelato il loro talento al pubblico e alla critica.
Anche stavolta seguo l’istinto e mi affido al linguaggio nuovo e senza tempo della pittura di Valerio de Filippis per comunicare un’idea di quanto sta accadendo nel panorama artistico contemporaneo.
Quella che vedrete allo Studio Abate non è una mostra che veicola messaggi di facile comprensione o dove sia sufficiente uno sguardo distratto o svagato; è un’esposizione di immagini pittoriche che contengono emozioni stratificate e sempre vive nei sentimenti che esprimono e nell’immaginario nel quale si vengono a depositare.
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A HIDDEN PRESENCE
Rome, May 2014
As soon as I discovered Valerio de Filippis’ art I felt the urgency to better understand what ideas and what gestures his hand had already produced: a canvas, filling my studio with energy, always advised me to get to know the artist further.
Once I had studied his art, I felt I ought to host one of his exhibitions to really grasp his world as examining images – a non-material view – didn’t seem enough.
There are artists who tell us about themselves, others who mostly describe what happens outside; de Filippis, in my opinion, pursues both dimensions. At the edge of these two spaces lie hands of his subjects: a masterpiece of expressivity by which de Filippis rips the veil of disillusion to bring on stage grace and obsession conveyed by the bodies he portrays. Throughout my career I always let intuition guide me and I must say most of the times the artists I photographed have revealed their talent to both spectators and critics. This time as well I will follow my instinct and rely on Valerio de Filippis’ innovative and timeless language to deliver an idea of what it’s happening in the contemporary art scene. The exhibition you will attend at the Abate Studio is not one conveying messages easily understandable by a distracted and superficial spectator. It’s an exhibition containing stratified feelings which perpetuate themselves in the emotions they express and in the imaginary where they tend to settle.
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De Filippis.
Preistorico splendore
di Livia Bidoli
http://www.gothicnetwork.org/articoli/de-filippis-preistorico-splendore
Primitivamente istoriati, i corpi dei guerrieri di Valerio de Filippis si muovono attraverso flessuosità
plastiche in universi di disincanto esponenziale. Paradisi d’inferno fantascientifico delineano narra- zioni sincopate in sincronia con il tenero livore di alcuni tratti, dipinti dalle lucide
spanne di touches de couleurs vibranti sul rosso e sull’argento. Ancora, sulle braccia, quasi trattenute nell’impervio sostare della tensione muscolare, si innestano vene appena
sollecitate, invariabilmente mobili nel loro peregrinare tra fatiche umane e d’interiore ed eroica purezza.
I guerrieri tacciono, immersi nella plasticità desueta di un turbinoso vigore, accogliendo forzatamente tattili metafore di un luogo dell’altrove. Sembra quasi di
udire il tragico canto del pittore attraverso di loro, come asseriva Kafka a proposito delle sue silenti sirene, scrivendo a Milena: ”Cerco sempre e ancora di comunicare qualcosa di non
comunicabile, di spiegare qualcosa d’inspiegabile, di raccontare qualcosa
che ho nelle ossa e di cui soltanto in queste ossa si può fare esperienza” (1).
L’altrove rimosso determina la pittura rutilante di de Filippis conducendo in uno spazio simile ad un’intercapedine dalla quale finalmente si possano percepire i sussurri del risveglio da un canto reso muto in un passato remotissimo. Il superamento agognato, stremato sulla soglia di una tenebra accentuatamente divelta dagli sprazzi di colore che come tagli infliggono ferite sul legno, è sempre una lotta che nelle parole di Bataille trova la sua dimensione descrittiva: “L’essere raggiunge il fulgore accecante nell’annientamento tragico”(2).
L’apoteosi di questo movimento acceca per il furore espressionista proprio nelle gambe sezionate di Il giocattolaio, emblema stesso della frantumazione dell’io in un mito, il cui passo scorre aldilà del tempo in cui gli è stato concesso di nascere. Un Dio disperso tra la polvere, i cui granelli microscopici derivano da parti fratturate nel momento stesso dell’impetuoso slancio. Un gesto disperatamente nichilista come afferma di nuovo Bataille: ”Il nulla stesso è il suo giocattolo: non vi si inabissa che per lacerarlo e illuminarne la notte al quale non sarebbe mai pervenuto se questo nulla non si aprisse totalmente sotto i suoi piedi”(3).
La fiamma della candela sul capo, in Accidia, non è che il simbolo di un fuoco desto, nonostante questo annientamento, in tutti gli sprazzi incrinati della pittura, in tutti gli acerbi spruzzi di matrice rubino, una circolazione vitale che ha il sangue come suo memento fulminante e fondante.
Il teschio rosso di The Circle non fa
che reiterare una ricerca di ubiquità nell’animo, quasi a lacerare quelle barriere che non permettono di trasferirsi in luoghi appena immaginati.
La forza sovrumana dell’evocazione non fa che richiamare l’attenzione su un atto doppiamente leggibile, sia nel senso di annichilimento sia come correlativo oggettivo di un magma folgorante sul punto di esplodere.
Ed allora ci si accorge che il viaggio di Ulisse è ancora di là da venire, il Ciclope come le sirene lo attraggono in absentia, come se il vero viaggiatore non fosse lì, direttamente nel quadro, ma da qualche parte, ai lati, ad osservare qualcosa che accade unicamente perché il pittore vi si è tramutato, essenza
stessa e raffigurazione, forse qui, forse altrove. Azionando ex novo i meccanismi che irrompono sul
legno dipinto, incidendo pensieri in volo rapido, in traiettorie obnubilanti che, spargendo autentiche
grida d’amianto, irrigano con gli elementi puri le cromie variabili di un viaggio.