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Valerio De Filippis: l'autoritratto mi ha rivelato la mostruosità e l'elevatezza spirituale. L'intervista di Fattitaliani

 

20 settembre 6 minute read

Valerio de Filippis

 

Il giorno 23 settembre 2023 alle ore 18.00 la galleria Horti Lamiani Bettivò presenta la mostra personale Progetto per un feto bionico transumano deforme di Valerio De Filippis a cura di Francesca Perti. Per l'artista, ricercatore dello spirito, l'autoritratto è un modo per indagare, non solo quello che di sé non conosce, ma anche quello che si vorrebbe essere e la paura di diventarlo. Fattitaliani lo ha intervistato.


A che punto della sua ricerca artistica si situa questa nuova mostra?

 

La ricerca su di un corpo umano “diverso” iniziò nel 2002 con la serie dei freaks. L’anno successivo dipinsi il primo cyborg, ovvero un essere umano cibernetico ottenuto con protesi artificiali. In seguito, fino ad oggi, la ricerca su questo tema non si è mai interrotta. Infatti questa mostra comprende lavori che partono dal 2008 all’anno in corso. Si tratta di autoritratti, ma non solo riferiti al corpo-macchina. Il fatto è che il transumanesimo è connesso all’eugenetica. Entrambi si pongono come scopo il valicare determinati limiti psicofisici dell’uomo.

Il Terzo Assalto (2012)

tecnica mista su legno, cm (90x120)

 

Che cosa l’autoritratto Le ha permesso di rivelare a sé stesso?

 

L’autoritratto mi ha rivelato due categorie opposte ed estreme: da una parte la mostruosità e dall’altra l’elevatezza spirituale, entrambe che albergano in ognuno di noi. La pratica artistica può essere rivelatrice, specialmente nell’autoritratto, a patto che si abbia l’ardire di scendere nell’abisso durante l’indagine su se stessi. Ma l’autoritratto è anche un modo per assumere un ruolo, al pari di un attore. Un ruolo che può essere spaventoso o, al contrario, rassicurante. Ma in ogni caso emozionante.

 

Gregor IV  (2012) 

tecnica mista su legno, cm (120 x 48,5)

 

In quali sentimenti universali delle tue opere pensa o spera si possano ritrovare i visitatori?

 

Paura e inquietudine, in base alla sensibilità e al livello di ricettività dell’osservatore. Ma occorre coraggio, in mancanza del quale si otterrebbe la fuga, il guardare da un’altra parte.

 

Lo specchio (Il boia) (2012)

tecnica mista su legno,  cm(73 x 110)

 

Il titolo è molto forte. Come nasce?

 

Il quadro che dà il titolo alla mostra è nato da una gettata di colore liquido su di una tavola posta in piano. La forma che si delineò sembrava un feto. E così lo trasformai in un esserino al cui interno, tramite apposite piccole finestre, si notano delle strutture elettroniche illuminate da led. Questo feto sono sempre io in un autoritratto immaginario. La parola “deforme” allude ad una deformità morale. Perché, alla fine dei conti, se da una parte assistiamo al superamento dei limiti psicofisici, dall’altra vi è inevitabilmente una perdita. La perdita della fragilità e della consapevolezza della finitezza umana, attraverso, non dimentichiamolo, l’aspetto del prolungamento della longevità. In altre parole, quello che si otterrebbe, secondo il mio sentire prettamente emozionale e intuitivo, dovrebbe consistere nello smarrimento, fino alla privazione, di quella tensione spirituale della quale la creatività non può fare a meno, che deriva proprio dal sentimento della finitezza, dal rapporto con lo spazio e il tempo. L’abbandono del corpo biologico, privato della sua corruttibilità, porterebbe ad un rapporto malsano e morboso con il tempo della vita, alla quale secondo me, ognuno è chiamato per scriverne e lasciarne un senso.

 

Progetto per un feto bionico transumano deforme  (2022)

tecnica mista  su legno, strutture elettroniche, led. cm (54 x 84) 

 

 

È successo che durante la creazione, un’opera ha preso una piega diversa rispetto alle intenzioni iniziali?

 

Sì, qualche volta mi è capitato di mentire a me stesso senza accorgermene. Dunque, un soggetto che pareva essere al centro del mio interesse in quel dato momento naufragava nel colore, per poi riaffiorare con ciò che veramente volevo esprimere. Essendo un essere cibernetico e transumano esclusivamente negli autoritratti, sono soggetto all’errore e lo dico in tutti i sensi. 

 

Giovanni Zambito.

 

 

 

Mistero e malinconia di un cyborg (2023)

Tecnica mista su legno, circuiti elettronici, led.

cm (100 x 160)

 

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L'Opinione

Valerio de Filippis: ”Iniziai a disegnare usando una penna biro, creavo storie a fumetti”

ByRedazione La Notte

13 Ottobre 2023

A cura di Ionela Polinciuc

Senza ombra di dubbio, la pittura è un mezzo espressivo atavico, parte inscindibile della natura umana, che trascende e supera il tempo.

Nato a Pozzuoli (NA), 5 marzo 1960, inizia la sua ricerca artistica, nel campo della pittura, nel 1980 a Bari, poco prima del conseguimento della maturità scientifica (1982).

Compie numerosi viaggi all’estero stabilendosi nel 1992 per due anni a Bruxelles. Dal 1994 vive e lavora a Roma dove nel 2003 fonda lo Studio E.M.P. (Experimental Meeting Point) studio d’arte, luogo di interscambio espositivo e confronto culturale e tecnico tra artisti di qualsiasi linguaggio.

Vincitore di numerosi premi, è stato invitato a diverse rassegne, anche internazionali.

Tra i protagonisti della pittura contemporanea, spicca per l’estrema riconoscibilità stilistica: la tecnica impiegata e le tematiche affrontate dimostrano uno studio e un’investigazione approfonditi, appassionati perché sinceri e mossi da un’esigenza emotiva viscerale, tra le pieghe della realtà e della psiche. Lui è Valerio De Filippis e lo abbiamo intervistato.

Valerio, come inizia la tua carriera e qual è il ricordo che custodisci con grande cura?

 

Iniziai a disegnare intorno ai nove-dieci anni: usando una penna biro, creavo storie a fumetti. Ricordo con emozione che in terza elementare, durante la ricreazione, più della metà dei miei compagni di classe mi accerchiava per guardarmi mentre disegnavo, anziché uscire dall’aula. Un altro bel ricordo riguarda una mia permanenza di qualche settimana in Veneto, in campeggio. Ci fu un concorso di pittura ed io feci un paesaggio con pastelli ad olio. Mi diedero il terzo premio. I partecipanti avevano un’età compresa fra i 12 e i 17 anni, ed eravamo in tutto circa 300 ragazzi. Io avevo 12 anni. Fino all’età di venti anni usai la tempera e la china, realizzai storie a fumetti e qualche quadro, dopo di che cominciai la vera pittura ad olio. Studiai su due libri, uno di solo testo e l’altro con testo e immagini. Non ho mai avuto maestri, studiavo da autodidatta, ma dipinsi per i prime sei anni ogni giorno con una media di dieci ore al giorno e mi appropriai della tecnica figurativa. La mia prima mostra personale fu nel 1982, avevo 22 anni. L’approccio professionale e il mio rapporto con il sistema dell’arte parte dal 2001, con le prime mostre importanti sia in gallerie private che in sedi istituzionali.

Fotografia by Piero Pompili

 

Valerio, importantissima mostra inaugurata il 23 settembre ed in corso fino al 23 ottobre. Parliamo del PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME. Potresti svelare più informazioni?

In questa mostra sono esposti quadri che partono dal 2008 al 2023.

L’interesse per la cibernetica, ovvero sul tema del post umano, nasce appunto nel 2008. La commistione tra uomo e protesi artificiali era per me estremamente interessante; così nacquero i primi Cyborg, ritratti corporei dove erano visibili delle strutture tecnologiche meccaniche molto sofisticate. Nel 2010 comincio a creare dei quadri più complessi, che vedono sempre questi corpi, questi cyborg con l’aggiunta di piccole aperture operate sul dipinto stesso attraverso le quali inserisco componenti prelevate da computer, cioè delle architetture elettroniche fatte di schede, transistor e microprocessori che vengono illuminati da ogni lato con dei led luminosi. La mostra in corso, a Roma, nella Galleria d’Arte Horti Lamiani Bettivò, prende il nome dal titolo di un quadro realizzato a cavallo tra il 2022 e il 2023 e cioè PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME.

Questo quadro nasce da una gettata di colore liquido su di una tavola posta in piano. La forma che si delineò sembrava un feto. E così lo trasformai in un esserino al cui interno, tramite apposite piccole finestre, si notano delle strutture elettroniche illuminate da led.

 

Il termine deforme non si riferisce soltanto ad una deformità fisica, essendo, nella mia fantasia, un esperimento, ma anche a una deformità morale ed esistenziale. Cercando di essere sintetico al massimo, il concetto è che la perdita del corpo biologico e della sua fragilità e la conseguente aumentata capacità sia di calcolo che di longevità ottenute grazie alla tecnologia, possano portare, a mio parere (parere del tutto intuitivo ed emotivo) ad un rapporto alterato col tempo e la morte, una perdita di orientamento riguardo al senso della vita. Il discorso dunque è sul transumanesimo e i suoi effetti sulla psiche: assisteremmo allo smarrimento, fino alla privazione, di quella tensione spirituale della quale la creatività non può fare a meno, che deriva proprio dal sentimento della finitezza, dal rapporto con lo spazio e il tempo. L’abbandono del corpo biologico, privato della sua corruttibilità, porterebbe ad un rapporto malsano e morboso con il tempo della vita, alla quale secondo me, ognuno è chiamato per scriverne e lasciarne un senso.

Freakcyborg  (2003) cm(100 x 90) tec. mista su legno

 

Hai già diverse esperienze espositive con le gallerie d’arte. Ma quali sono i tuoi progetti presenti e futuri?

 

La mostra è stata notata da alcune persone operanti nel sistema dell’arte e ho avuto diversi inviti a portarla in altre città, però vorrei aggiungere quadri nuovi sviluppando questa ricerca sullo stesso tema. Quindi, attualmente sto continuando nella realizzazione di nuove opere.

Sickcyborg (2008) cm (70x100) olio su tela

 

Dunque l’artista si fa portavoce delle istanze provenienti dall’ambiente psichico generale e ne agisce prima di altri le intenzionalità?

Certamente. Nella storia dell’arte possiamo dire che questa affermazione è ampiamente dimostrata. Parliamo della capacità precognitiva dell’artista, se ho capito bene la domanda. L’ipersensibilità dell’artista, unita alla dedizione, senza limiti di tempo, alla riflessione e alla creazione può portare a quello sguardo che riesce ad andare oltre i fatti oggettivi. Naturalmente questo è altrettanto vero, ad esempio, per gli scrittori di fantascienza sociologica, come George Orwell, Aldous Huxley, Philip Dick, ecc.

Il pittore lo fa creando immagini statiche, che è l’estrema sintesi di un concetto e di un’eventuale precognizione che può essere molto complessa. E’ dal rigore e dal valore di tale sintesi che scaturisce la potenza dell’opera.

Però, a mio parere, l’artista si fa portavoce suo malgrado, nel senso che non gli interessa, almeno nel momento della creazione, essere rappresentante di un pensiero che può essere ancora allo stato latente nell’ambiente sociale. Quando l’artista crea e produce un oggetto artistico, libro, quadro o scultura che sia, lo fa per una pura urgenza espressiva e per comprendere egli stesso qualcosa che ancora deve mettere a fuoco. Ed egli stesso può stupirsi di ciò che gli comunica il suo prodotto, in special modo se lavora usando la parte razionale solo nella tecnica, ma non nel pensiero.

Un messaggio da lanciare ai nostri lettori.

Mi riesce difficile dare messaggi scritti o detti. Io uso un medium artistico che è la pittura, andando anche oltre la pittura in quanto la contamino con oggetti, come dicevo prima, che sono architetture elettroniche, led, ecc.

Il messaggio è insito nell’opera, il bello è che si tratta sempre di un tipo di comunicazione criptica e misteriosa, mai definitiva e chiara. Sta all’osservatore tentare di decifrare il senso di tale comunicazione, ammesso che si possa decifrare.

 

Ecco, io direi che un’opera può essere interpretata soggettivamente e aggiungerei che lo stesso vale per il suo creatore, in quanto egli stesso non possiede alcuna verità dimostrabile.

 

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Valerio De Filippis a Fattitaliani: L'arte apre le porte a enigmi irrisolvibili. L'intervista

 Fattitaliani

11 dicembre 8 minute 2022      8 minute read

 

Dal 17 dicembre 2022 al 13 gennaio 2023 la galleria Art GAP, a due passi da Largo di Torre Argentina, è lieta di accogliere la personale “Il crinale della mimesis” di Valerio De Filippis, a cura di Cecilia Paolini. La mostra verrà inaugurata sabato 17 dicembre 2022 alle ore 18:00. L'intervista di Fattitaliani all'artista.

Come spiegherebbe a chi si avvicina all’arte la sua mostra “Il crinale della Mimesis”?

 

Si tratta di un’esposizione non unitaria, a differenza di quasi tutte le altre mostre che ho tenuto; infatti, mentre queste ultime sono state presentazioni di quadri di uno specifico tema, “Il crinale della Mimesis” comprende 29 quadri che vanno dal 2007 al 2022. Si potrebbe definire una mostra antologica, ma non è stata questa l’intenzione. In realtà ho ripercorso alcune tappe nelle quali le differenze nella tecnica sono molto evidenti. Poi queste tappe sono state rielaborate con nuovi soggetti dipinti quest’anno, nel senso di un confronto con me stesso.

 

Dispersione-epilogo (2022) tecnica mista su legno, cm (89 x 135)

 

Quali sono stati i suoi motivi ispiratori nel tempo? Sono cambiati?

 

Sono cambiati di continuo. Negli anni 2000, ad esempio, prendevano le mosse dalla cronaca relativa ai comportamenti dis-umani aberranti. E’ seguito un periodo di ricerca sperimentale fondato unicamente sulla ricerca della cifra stilistica personale propriamente detta. Poi due cicli basati sulle memorie di esperienze di vita. Ancora, un ciclo sui “vinti”, soggetti emarginati dalla società. Un altro sulla perdita dell’identità. E diversi altri ancora, in 42 anni di attività pittorica. Il motore di ogni ciclo naturalmente è sempre partito dall’urgenza espressiva originata dal turbamento di quel dato periodo. Mai committenze, mai quadri di “tendenza” a scopo di compiacere e/o vendere.

 

Italo, artista di strada (2022) olio su legno, cm (27 x 35,2)

 

Tornando indietro, riconosce un’evoluzione nella sua tecnica? 

 

Certamente c’è stata un’evoluzione tecnica: iniziai a 20 anni copiando ogni quadro che mi piaceva, poi sperimentai la tecnica iperrealista. Col passare del tempo compresi che l’obiettivo supremo, quanto ambizioso, era quello di fondere la figurazione con l’astrattismo. In altre parole, non più rappresentare, ma evocare: l’evocazione di un qualcosa di riconoscibile come oggetto o come corpo che prende forma da un magma di colore astratto, in senso onirico, diventò -a partire dal 2003- la mia ossessione. Alcuni risultati sono sicuramente apprezzabili.

 

Benedetto (dai tutti i tuoni del cielo) (2022)

tecnica mista su legno, cm (195 x 125)

 

Cosa si augura che il visitatore possa provare nell’ammirare le sue opere?

Che provi il “perturbante”, ovvero quel senso di spaesamento e di vertigine che si prova, ad esempio, nel guardare “L’isola dei morti” del Böcklin. 

L’arte che posto occupa ai giorni nostri secondo Lei?

 

L’arte occupa ancora un posto importante, ma con le dovute differenze nel tempo. Mentre nell’antica Grecia l’arte del teatro era vissuta dalla gran parte della società come pellegrinaggio religioso alla ricerca di se stessi attraverso la Tragedia, oggi credo sia molto forte negli artisti dire qualcosa che a parole non si può più dire senza essere emarginati. E così anche la fruizione dell’arte è caratterizzata dalla stessa logica. Poi c’è l’entertainment, che viene confuso con l’arte, ma quello non ci riguarda. L’artista opera perché quello che già esiste non gli basta. Dipinge quello che non si sa e che egli stesso non sa di un oggetto o di un corpo, non quello che possono dire immagini o parole, ma qualcosa di non visto e di inatteso per sé e per gli altri. Dunque apre le porte a rivelazioni e allo stesso tempo a enigmi irrisolvibili. 

Giovanni Zambito.

 

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La mostra: Il crinale della Mimesis

 

Il demone che anima ogni essere umano è una elaborazione robusta e molto complessa che viene costruita, a volte in modo totalmente inconsapevole, ogni minuto di vita consumata. È il risultato dell’ambiente sociale e culturale nel quale nasce e cresce l’essere umano, ma anche di quella innata inclinazione inconoscibile, forse insita nella struttura fisica più intima, forse coincidente con quella che molti chiamano anima; ma come in ogni fenomeno di pensiero complesso, la somma delle parti non restituisce il totale, ma qualcosa di meno. In anni e anni di ricerca estetica, il demone artistico di Valerio de Filippis è cresciuto, si è trasformato, è diventato altro, si è arenato e addirittura annullato, generando una serie di elementi che da soli contengono una parte del tutto e tutti insieme non raggiungono la completezza. Se a questo si aggiunge la dimensione temporale, che inevitabilmente fa dimenticare se non i significati, almeno l’urgenza attraverso la quale si è costruita la dimensione della creatività, il senso di disorientamento può far perdere la propria identità. Forse per questa impossibilità di completezza e perfetta definizione che, di tanto in tanto, si sente la necessità di una sospensione, di ricomporre tutti i frammenti che il tempo ha prodotto per cercare di carpirne l’unità, per intuire quel tutto che costantemente sfugge. In questa disperata operazione di comprensione, avviene il disvelamento di ciò che è stato un percorso coerente, mai abbandonato, che ha guidato un percorso importante e necessario; questo disvelamento avviene sempre, a patto che la ricerca che si è intrapresa sia stata sincera.

 

When Were Why Who What (2022)

tecnica mista su tela, cm (80 x 150)

 

Ecco le motivazioni che portano a questa mostra, che si compone di due parti, entrambe imitative, ma in senso opposto, l’una compenetrata nell’altra: in una prima, de Filippis imita la grande arte del passato, opere di autori, famosissimi come Hopper oppure ignoti, che sono entrati dentro i suoi occhi, costituendo un modello estetico non solo formale, ma tecnico-compositivo. Non si tratta di copie vere e proprie, poiché in tutti i dipinti di questa serie c’è un elemento non presente nella versione originale: il fuoco, elemento purificante ed effimero, distruttivo ma simbolo primo della civilizzazione. Questo elemento iconografico è ricorsivo e ridondante, come il martellante “Do” di Schumann, e costituisce l’elemento di riconoscibilità di quella completezza che nel tutto del catalogo di de Filippis potrebbe non essere altrettanto visibile.

 

 

Dall'originale di Edward Hopper: GAS (1949)

Valerio de Filippis: GAS (2021)

olio su legno cm (52,5x34,2)

 

La seconda parte è dedicata a de Filippis che imita se stesso, in un percorso introspettivo che ripercorre tutte le tappe della sua produzione, dalla pittura monocromatica per sottrazione di Vae Victis alla tavolozza cromatica acida di Gocce di Sole; dalle ambientazioni astanti dei Frammenti di Memoria alle aniline dell’iconica Figura.

 

Un’imitazione a doppio percorso che guarda la storia, dell’arte in senso generale e quella di de Filippis strictu sensu, che pone la riflessione sulla completezza guardando a un’alterità intimissima.

 

Gocce di sole (2007) olio su legno cm (40x40) 

 

Completa il percorso una installazione composta da un obelisco, eseguito nel 2012, assurto come monumento di potere in qualsiasi tempo e in qualsiasi società; un potere immobile e immutabile, in grado di intimorire per la sola presenza, un simbolo su cui ogni nazione, in un determinato momento della storia, ha riversato regole e divieti, sempre diversi, immancabilmente simili.

 

   Cecilia Paolini (storico dell'arte)